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REGOLA
KOINONIA

​Primo anno: Dal dono alla scelta della comunità

alla scoperta dell’identità di una comunità

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Dio ci dona una regola.

Una regola non è un regolamento, ma è una proposta di Dio perché possiamo vivere una scelta, dire il nostro sì a qualcosa di concreto. Anche se non perfettamente definita in tutti i suoi aspetti, la regola chiarisce l’identità della chiamata, perché ognuno possa esprimere il proprio “sì”, unico, ma inserito nella comunione di altri “sì”: anche se lo Spirito chiama ciascuno in maniera diversa, si cammina tutti sulla stessa strada, si abita la stessa casa, si riceve lo stesso dono.

 

Tutto è dono.

La casa, la diocesi, i religiosi, le sorelle di comunità, le altre ragazze, le esperienze, persino le difficoltà. Tutto è “il dono”, che il Signore mi mette davanti perché io possa fare un passo avanti, per rispondere “meglio” con la mia vita alla Vita vera.

 

La responsabilità della preghiera.

Attraverso il piccolo impegno della meditazione del Vangelo quotidiano, siamo introdotti nella responsabilità della preghiera. Questa piano piano cessa di essere avvertita come il peso in più di un compito ricevuto, ma appunto come la responsabilità di ricevere per poter dare. Quando capita di non essere fedeli all’appuntamento non si tratta di sentirsi mancanti, come colpevoli di inadempienza, ma mancanti, come mani vuote, non avendo cosa dare a se stesso e all’altro di quel pane quotidiano che può venire a noi solo da Dio.

 

La condivisione.

È lo strumento per una conoscenza più profonda, ma anche la via per una comunicazione del cuore. Nella comunità si impara a dare non qualcosa, ma noi stessi come cibo, perché insieme all’altro cresciamo nell’amore.

Si condivide quello che la Parola ha seminato, quello che Dio ha compiuto nelle nostre giornate, semplicemente come stiamo e come stiamo vivendo, le considerazioni sulla comunità.

La condivisione è settimanale.

 

Maturare-decidersi.

La nostra è una comunità di fede, ma non è una comunità religiosa. Vale a dire che la comunità è uno strumento e non un fine! Si deve percepire la laboriosità di Dio che sta mettendo mano alla suo opera per portarla a compimento, imprimendone una forma più precisa, più matura. A questa maggiore chiarezza di Dio, che fa maturare nella persona e nella sua storia, più chiari segni per capire la sua volontà, deve corrispondere una maggiore chiarezza della risposta, una più ferma volontà nel decidersi per se stessi, per il bene, per il Signore.

 

Il cammino di una comunità.

Comunità non si nasce, ma si diventa. Non si può pretendere tutto e subito, occorre avere la pazienza che l’identità emerga, fra mille imperfezioni. C’è un cammino che il Signore fa fare a ciascuno e a tutti, si parte dall’ideale, dall’entusiasmo, dalla capacità di vedere i macroerrori e con affetto correggerli. Poi, in maniera diversissima, c’è il passaggio dall’ideale al reale: il toccare con mano che le buone intenzioni non bastano, che esistono modi diversi la cui conciliazione costa tanta fatica e non sempre si hanno le forze, le pazienze, le tolleranze necessarie. Finalmente, questo ci porta ad arrenderci e capire che la comunità non è frutto nostro, che non siamo così bravi e buoni come pensavamo e che il volersi bene non copre tutti gli aspetti della nostra vita! Si passa dal reale alla comunità-dono: capire come solo il Signore ci insegna a stare insieme e ci aiuta a vivere il “suo” modo di volerci tutti fratelli e sorelle.

 

Lo zelo per le cose comuni.

La vita in comunità non è spiritualismo, ma si concretizza nella cura della casa. La comunità chiede un’attenzione alle cose da fare per sé e per gli altri, frutto di un “esercizio” personale. Non è detto infatti che tutti siamo portati a fare tutto e quindi in modo naturale, come tribù o come branco, tenderemmo ognuno a fare o far fare secondo le proprie inclinazioni. Sia che questo sia funzionale, sia che questo crei tensioni, non è del tutto giusto. La comunità è il luogo della fraternità, dove tutti ci prendiamo cura allo stesso modo, senza ruoli, siamo tutti allo stesso livello. Di questo il segno, quasi il sacramento è fare tutti le cose per gli altri e, quando possibile, il farle assieme. Ecco perché a volte saranno necessari turni o darsi regole: per dare la possibilità a tutti di servire e a tutti di essere serviti. In ognuno, questo “esercizio”, produce la virtù provata della “cura degli altri” e la gioia di chi trova gusto nel “lavorare” per tutti.

 

I giudizi.

Non esistono persone perfette e ognuno di noi ha occhi per vedere gli errori degli altri! Eppure c’è un sottile confine che sarebbe bene non oltrepassare per non scadere nel giudizio, quello di cui parla Gesù nel Vangelo. A volte, nelle modalità, si trascende la critica e si passa a un sottile colpo alla persona: un ironia al veleno, sottintesi, battute con le altre e non con la diretta interessata. Senza che ce ne accorgiamo, rischiamo di minare la base di fiducia, di attentare alla serenità del gruppo, di non dare all’altra il tempo di capire, crescere, cambiare. Invece di prenderci carico del peso dell’altra, rimandiamo al mittente il suo peso: è lei che sbaglia, non posso sentirmi io il problema

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La correzione.

La maturità di una comunità si misura nella capacità di vivere errori, dissensi, cambiamenti. Strumento privilegiato è la correzione. Non sempre il Signore parla in modo che tutti sentano, a volte parla a qualcuno perché a tutti poi arrivi il messaggio. Vale a dire che a volte solo alcuni si accorgono che ci sia qualcosa che non va o che andrebbe migliorato. La correzione però deve rimanere un atto umanissimo ed avere i tratti amorosi della delicatezza, del rispetto, dell’umiltà e dell’unità: il soggetto è il “noi”, non si getta un sasso nello stagno sperando che un nuovo equilibrio magicamente si crei, si cercano momenti dedicati, mai i social.

 

Arrivare alla fine della prima tappa.

Arrivare con frutto al termine di questo primo stadio significa aver chiarito l’identità della proposta che il Signore e la Chiesa mi hanno fatto con la comunità e sceglierla nel duplice senso: 1) essere grati per quello che si è vissuto e sentire che, nonostante non fosse chiaro all’inizio, uno lo rifarebbe; 2) sentire però che se si va avanti è perché l’identità della proposta è chiara ed è quella che scelgo per il secondo passo.

Inoltre, arrivare con frutto al termine di questo primo stadio è sentire che nella Chiesa all’identità si lega sempre una missione: cominciare a sentire propria la missione della casa, del puntogiovani, sentire vicine le persone che vivono e transitano, sentire che la comunità non è un nucleo chiuso, avere a cuore la vocazione della Chiesa, nella quale vi è anche la mia!

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